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CULTURA

Cappella Madre della Riconciliazione - Il ciclo pittorico sulla riconciliazione


Il battesimo di Gesù e i cieli aperti

Nel salire le scale che portano al piano dove si trova la cappella, si incontra il quadro che rappresenta il battesimo di Gesù. Nel dipingerlo, il pittore Supereco ha dato alla scena movimento e forza, soprattutto mettendo in risalto sia il gesto della mano del Battista nell’atto di versare l’acqua battesimale nella testa di Gesù, sia il suo volto – Gesù è ritratto di spalle – che esprime tutta la gioiosa consapevolezza di aver finalmente incontrato il Messia atteso da secoli.
Il quadro fa riferimento ai racconti evangelici del battesimo di Gesù (cf. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Da quell’evento prese avvio la sua vita pubblica, dopo che aveva trascorso circa trent’anni nell’anonimato a Nazareth. In quell’occasione manifestò subito chi era e che cosa era venuto a fare in questo mondo. I vangeli ci informano, in particolare, che durante il suo battesimo si aprirono i cieli. È un’immagine potente e suggestiva – richiamata nel dipinto – tramite la quale ci viene comunicato che la missione di Gesù fu soprattutto quella di aprire i cieli. I cieli chiusi – segno tragico dell’interruzione dei rapporti tra Dio e l’umanità dovuta al peccato di quest’ultima – con Gesù si aprirono: Dio uscì dal suo silenzio; riprese il suo dialogo con l’uomo, facendo irrompere nel mondo una nuova epoca di riconciliazione, di amore e di pace. Chiediamoci: perché è stato posto questo quadro all’inizio dell’itinerario alla scoperta del ciclo pittorico della cappella? Evidentemente il battesimo di Gesù rimanda al nostro battesimo che la sapienza cristiana, lungo i secoli, ha denominato come janua vitae spiritualis (porta della vita spirituale). Queste tre parole latine si leggono ancor oggi impresse sull’architrave delle porte di ingresso di antichi battisteri. Posto all’inizio del nostro itinerario, il quadro del battesimo di Gesù intende essere come un avviso posto alla porta d’ingresso della cappella: esso ci invita a predisporci, non solo ad ammirare una serie di opere d’arte come si usa quando si visita un museo, ma a lasciarci coinvolgere in una esperienza di fede che, per noi cristiani, ha il suo punto di partenza proprio nel battesimo.

Un annuncio di riconciliazione


Dopo aver varcato la porta d’ingresso della cappella, vi invito a prendere in considerazione i due tondi posti uno a destra e l’altro a sinistra della stessa. Essi, pur separati, si richiamano l’un l’altro nel riferimento unitario al racconto dell’Annunciazione che troviamo nel Vangelo di Luca (1,26-38).
L’Artista, attraverso un sapiente gioco di colori, coglie e fissa due momenti particolari del dialogo tra l’Angelo Gabriele e Maria. L’Angelo – ritratto con colori tendenti all’oro e con una mano, quella di sinistra, nel gesto che evoca un Mandante che gli ha assegnato una missione – è qui il messaggero di Dio che portò a Maria una singolare e inaspettata notizia: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1,28). Entrando da Lei, non la chiamò con il suo nome terreno, Maria, ma con un nome nuovo, un nome che rivelava come Dio da sempre la vedeva e la qualificava: piena di grazia, cioè amata da Dio. Maria – ritratta con un abito rosso a significare la sua appartenenza al mondo degli uomini – di fronte al saluto dell’Angelo assunse un atteggiamento – ben espresso nel quadro dal volto e dal movimento delle mani – che esprimeva insieme turbamento, domanda di chiarimento circa il senso di un tale saluto, ma anche intima consapevolezza di essere chiamata a collaborare con Dio nella realizzazione del suo piano di riconciliazione con l’umanità. Maria, davanti ad una richiesta inaudita ed imprevista, è ritratta mentre sperimenta il brivido della creatura posta di fronte al mistero divino e alla sua trascendenza. L’Angelo la rassicurò con queste parole: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio” (Lc 1,30); “Lo Spirito scenderà su di te” (Lc 1,35). Così, alla fine di quello storico colloquio, arrivò il sì di Maria, un sì decisivo per l’umanità perché costituì la porta attraverso la quale Dio entrò nel mondo e si fece uomo: “Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio, nato da donna” (Gal 4,4). A partire da quel sì “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14), l’Eterno entrò nella storia, Dio si legò agli uomini e si riconciliò con loro con un dono totale e irrevocabile, con un’alleanza indissolubile, con un amore più forte della morte. Con il suo sì, Maria compì la missione di riconciliare Dio con il genere umano, dando concretezza storica al sogno d’amore di Dio, che tutto aveva creato proprio in vista di quel sì.

Il Natale del Bambino Gesù: Dio e l’uomo riconciliati

 
Alziamo ora gli occhi al soffitto della cappella dove il quadro che incontriamo è quello della natività di Gesù. Esso rimanda a due racconti che possiamo leggere nel Vangelo di Luca e in quello di Matteo (cf. Lc 2,1-20; Mt 1,18-25). Nel visionare la rappresentazione della natività vi invito a far risuonare nel cuore le voci dei pastori che dicevano fra loro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” (Lc 2,15).
Cosa trovarono? “Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16). L’Artista, pur presupponendo il ricco dipanarsi narrativo degli eventi natalizi descritti nei testi evangelici, con la sua rappresentazione ha concentrato tutto sull’essenziale: il Bambino, la madre Maria, Giuseppe. Il Bambino, prima di tutto, reso luminoso nel dipinto da una luce che arriva dall’alto, dal cielo. Quel Bambino – nato in una stalla, deposto in una mangiatoia, accudito con materno amore dalla Madre Maria che lo copre con un panno, custodito da un pensoso Giuseppe – è Dio. Ma, quel Bambino è anche uomo; quel Bambino è l’abbraccio di Dio all’uomo; quel Bambino è l’abbraccio dell’uomo a Dio.
In quel Bambino Dio e l’uomo sono finalmente riconciliati. E per sempre. Nel dipinto troviamo anche Maria con tutto il suo amore di madre e Giuseppe con la sua composta fedeltà di padre, attori e spettatori attoniti di un evento che coinvolgeva il cielo di Dio e la terra degli uomini, un evento da cui prendeva inizio un capitolo nuovo della storia, fatto di riconciliazione e salvezza. Nel dipinto, la scena natalizia è piena di luce, una luce che avvolge come un manto caldo e protettivo tutti i suoi protagonisti. Il Vangelo di Luca racconta che ai pastori apparve la gloria di Dio e “li avvolse di luce” (Lc 2,9). “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre”, scrisse san Giovanni (1Gv 1,5). A partire da Betlemme una scia di luce ha illuminato i secoli. Soprattutto se guardiamo ai santi – anche ai nostri, da san Giusto fino al Beato don Francesco Bonifacio, ma anche ai santi Sebastiano e Rocco patroni titolari della cappella – scorgiamo questa luce che continua ad essere alimentata dal mistero di Betlemme.

La croce della riconciliazione

 
 
 
 
 
Spostiamoci ora al centro della cappella e apprestiamoci a guardare verso la parete destra dove si trovano collocati due quadri, con i quali l’Artista ha inteso rappresentare, in modi innovativi e inediti, gli eventi della passione, della crocifissione e della morte del Signore, che troviamo presenti in tutti i quattro Vangeli (cf. Mt 26-27; Mc 14-15; Lc 22-23; Gv 18-19). Anche se sono due, i quadri vanno letti dentro il dinamismo unitario degli eventi che descrivono, con scene di alta drammaticità rese tali dall’uso di colori che rimandano al buio e alla notte. I racconti evangelici ci informano che Gesù, consumato il banchetto pasquale – nel quale ha legato la sua presenza nella vita della Chiesa al sacramento dell’Eucaristia –, esauriti i discorsi confidenziali dell’ultima cena, abbandonò la calda intimità del cenacolo e, con un piccolo gruppo di discepoli, uscì nella notte. Fu una notte drammatica e tragica: del tradimento, dell’abbandonato, illuminata solo dalle lanterne di chi aveva deciso di mettere in catene e giustiziare il Figlio di Dio, la cui anima era “triste fino alla morte” (Mt 26,38), e piena di “paura e angoscia” (Mc 14,33). Nei due quadri, l’Artista mette in tela la sconvolgente rappresentazione di un dramma, dove si mescolano insieme le voci dell’odio, lo spettacolo indecoroso della viltà umana – di Pilato, di Pietro, degli Apostoli in fuga – il gesto delicato della Veronica e il pianto della madre Maria che riprende in grembo quel figlio misterioso e affascinante, ormai morto appeso ad una croce. A legare tutti i vari eventi riprodotti nei due quadri è sempre la croce: accolta e portata da Gesù che lì si spegne, consapevole di aver portato a buon fine l’impresa che gli era stata affidata dal Padre celeste: “È compiuto” (Gv 19,30), disse. Fu l’ultima sua parola.
Chiediamoci: quella croce è il segno del fallimento di un illuso? A leggere le Lettere di san Paolo, che sulla croce e sul Crocifisso scrisse pagine memorabili, la risposta è no. Anzi, con una certa enfasi tipica del suo incalzante e fervoroso periodare, se ne esce con questa lapidaria affermazione: Gesù crocifisso “è la nostra pace” (Ef 2,14) che realizza “per mezzo della croce” (Ivi, 2,16). In questa prospettiva, l’Apostolo ce la indica come il simbolo reale di un duplice e dinamico movimento: quello verticale della riconciliazione dell’uomo con Dio; quello orizzontale che abbatte “il muro di separazione che li divideva” (Ivi, 2,14), riconciliando gli uomini tra loro (cf. Ivi 2,16). Cristo crocifisso, innalzato sulla croce riunisce l’uomo e Dio e nelle sue braccia aperte unisce ogni uomo ad ogni uomo, “eliminando in se stesso l’inimicizia” (Ivi 2,16). Quale inimicizia? Quella dell’uomo con Dio; quella dell’uomo con l’uomo. La croce è così lo scrigno che racchiude il prezioso tesoro della riconciliazione. Nella vita cristiana tutto è autenticato da essa quasi a ricordarci che quel patibolo degli schiavi è la sorgente del rinnovamento del mondo. San Paolo scrisse: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

Con la risurrezione finalmente riconciliati

 
Continuando il nostro itinerario alla scoperta del ciclo pittorico della cappella, sono ora ad invitarvi ad alzare lo sguardo per ammirare il quadro che sovrasta l’altare: con esso l’Artista evoca l’evento della risurrezione di Gesù.
Dopo che i quadri della parete destra della cappella ci avevano immersi nelle atmosfere tetre del dramma della passione, crocifissione e morte di Gesù e nella notte del sepolcro, ora questo quadro ci mette dentro a una situazione completamente diversa e nuova. L’Artista la fissa sulla tela consegnandoci il momento in cui Gesù, pieno di forza e vigore anche fisico, è nell’atto di abbandonare il sepolcro per lanciarsi verso un orizzonte celeste di vita e di luce.
Accanto al Risorto, il Pittore ha dipinto un uomo che, come svegliato da un sonno, è reso partecipe stupefatto di quella esplosione di vita, ormai nuova ed eterna. Il quadro, infatti, lascia intuire che con Gesù risorto la vita è più forte della morte, il bene ha la meglio sul male, che l’amore ha una marcia in più dell’odio, che la verità ha l’ultima parola anche sulle pretese lusinghiere della menzogna. San Paolo scrisse: “Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Mentre abbiamo ancora gli occhi fissi nel quadro, chiediamoci: cos’è e cosa significa la risurrezione di Gesù? Per la risposta lasciamoci guidare da san Giovanni che, “rapito in estasi nel giorno del Signore”, cioè di domenica, giorno della risurrezione di Cristo, ci racconta, in una memorabile pagina dell’Apocalisse, questa sua intima esperienza: “Ma egli (cioè il Cristo Risorto), posando su di me la sua destra, disse: Non temere! lo sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Ap 1,17-18). Gesù, il Primo e l’Ultimo, è il senso definitivo dell’uomo, è la pienezza della storia umana e della storia della salvezza. Egli è il Vivente, perché ha superato il limite invalicabile della morte; è il Vivente, presente nella sua Chiesa e nella storia universale e personale dell’uomo; è il Vivente che ha le chiavi della morte e degli inferi, cioè detiene le chiavi per poter aprire la porta della vita eterna, attraverso la quale nessuno prima della morte e della risurrezione di Gesù era potuto penetrare. In altre parole, Gesù Risorto diventa la sorgente della vita per tutti quelli che credono e crederanno in Lui.

Lo Spirito della riconciliazione, la Chiesa per la riconciliazione

 
Prendiamo ora in considerazione la tela più grande del ciclo pittorico della cappella, collocata tra quelle della natività e della risurrezione, cioè tra l’inizio e la conclusione della vicenda terrena di Gesù Cristo. In questa grande opera l’Artista ha riprodotto la Pentecoste, raffigurando Maria con gli Apostoli che, dopo la risurrezione del Signore, e anche loro pieni di gioia e di vigore, danno avvio alla straordinaria vicenda cristiana nella storia, storia che giunge fino a noi e ci riguarda direttamente. Il quadro va considerato a partire dalla raffigurazione della colomba – nella simbologia soprattutto degli evangelisti è lo Spirito Santo (cf. Mt 3,16-17; Mc 1,10-11; Lc 3,22; Gv 1,32) – che sta al centro di esso ed è raffigurata nell’atto di discendere su Maria e i discepoli. Ma il grande tondo presuppone anche il testo degli Atti degli Apostoli dove si racconta l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli che stavano nel Cenacolo insieme con la Madonna (cf. At 2,1-13). Oltre al simbolo della colomba, il libro degli Atti aggiunge altre simbologie per descrivere lo Spirito Santo: “un fragore, quasi un vento… impetuoso” (Ivi 1,2), che dona forza; “lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro” (Ivi 2,3), un fuoco che purifica i cuori e lingue che annunciano il messaggio evangelico. La Pentecoste con l’effusione dello Spirito Santo è anche la data di nascita della Chiesa, rappresentata nella grande tela da Maria attorniata dagli Apostoli dipinti dentro un movimento che, in prima battuta, è circolare per ricordarci la dimensione comunitaria della Chiesa e, nello stesso tempo, volge all’estroversione per ricordarci la dimensione missionaria della stessa. A questo punto chiediamoci: perché esiste la Chiesa? Quale è precisamente la sua missione? Alla Chiesa è affidato il Vangelo della riconciliazione tra Dio e l’uomo. La Chiesa non è portatrice di nessun vangelo proprio: è affidataria invece della “parola della riconciliazione” che deve ripetere ad ogni generazione umana, una riconciliazione che è dono fatto all’uomo dal Padre mediante la morte e risurrezione di Cristo, costantemente reso vivo dall’azione dello Spirito Santo. E dalla riconciliazione offerta da Dio per mezzo della missione della Chiesa viene posto dentro alla storia umana anche il seme della civiltà dell’amore. Gesù promise ai suoi discepoli: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Ed è su questa promessa del Cristo Risorto che si appoggia fiduciosamente la fede della Chiesa nel portare avanti la missione di annunciare a tutti e sempre il Vangelo della riconciliazione.

Santi, testimoni di riconciliazione

 
Il nostro viaggio alla scoperta del ciclo pittorico della cappella continua prestando attenzione agli ultimi tre quadri: il primo è collocato dietro all’altare e vi sono raffigurati i protomartiri tergestini san Giusto, san Servolo, le sante Eufemia e Tecla con in mano la palma del martirio, mentre inginocchiato si trova san Sergio con l’alabarda che è il simbolo di Trieste. Essi fanno corona all’immagine della Madonna Addolorata di fronte alla quale il Vescovo Santin pregò il 30 aprile del 1945 in uno dei momenti più tragici di Trieste, stabilendo in questo modo un legame ideale tra il martirio dei protomartiri e il ‘martirio’ della Città che annulla distanze secolari. Le due altre pale si trovano sulla parete sinistra della cappella e raffigurano i suoi patroni originari: quella di san Sebastiano, ritratto dal pittore Supereco con una freccia che si sta conficcando nelle sue carni, conformemente alla sua biografia di testimone e martire della fede; quella di san Rocco, raffigurato con accanto un cane che richiama la sua esemplare testimonianza di uomo della carità e di patrono di quelli colpiti dalle pestilenze. Fede, carità e martirio: questo il messaggio che ci offrono le tre tele raffiguranti i Santi. Tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che, con la loro fede, la loro carità e il loro martirio, sono stati testimoni del Vangelo della riconciliazione e punti di riferimento per innumerevoli generazioni. Epifania della potente e trasformante presenza del Cristo Risorto e del suo Spirito, Essi sono lì a dirci con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Il Vangelo delle Beatitudini fu il codice della loro santità, che indicò la strada liberante e salvifica del distacco dai beni, dell’esercizio della misericordia e della mitezza, della solidarietà all’uomo, dell’amore e della convivenza nella pace. Essi hanno cercato e amato intensamente Dio e accolto la parola di Cristo che disse: “Vi ho dato l’esempio, perché, come ho fatto io facciate anche voi” (Gv 13,15). Nel guardare alle tre tele che li raffigurano giunge a noi un pressante invito: a guardare al cielo, che è la nostra meta finale, il traguardo della nostra vita terrena, la nostra vera patria, perché la nostra esistenza umana non è un cammino verso il nulla, ma verso l’eternità; a farci santi, perché la santità è per tutti, è possibile a tutti, anche se la strada da percorrere richiede molte rinunce.

Eucaristia, sacramento di riconciliazione

Il nostro itinerario, di scoperta della cappella e del ciclo pittorico che ospita, termina con la considerazione, non di un quadro, ma di realtà che sono collocate nello spazio del presbiterio: l’ambone, l’altare, il tabernacolo. Tutte e tre ci parlano di Cristo e vanno viste come l’approdo illuminante e vivificante di quello che abbiamo ammirato e meditato in precedenza. All’ambone si proclamano le Sante Scritture, che parlano di Cristo; sull’altare si celebra il sacrificio eucaristico, memoriale della sua Pasqua di morte e risurrezione; nel tabernacolo c’è Lui, presenza discreta di amore e misericordia tra le gioie e le tristezze, le speranze e le delusioni del suo popolo. Ambone, altare e tabernacolo sono alla fine il segno commovente della sua donazione di amore che avevamo già colto nella considerazione dei differenti elementi che compongono il ciclo pittorico della cappella: si è donato a Betlemme, nascendo come Salvatore del mondo; si è donato sul Calvario, spargendo il suo sangue per lavare i peccati del mondo; si è donato a Pasqua offrendo la grazia di una vita nuova ed eterna; si è donato a Pentecoste vivificando la Chiesa con il dono del suo Spirito. Si è donato totalmente per realizzare il piano di un’umanità riconciliata con Dio e di un’umanità finalmente di fratelli e sorelle. Oggi, sulla tavola della Parola e su quella del pane offerto e del sangue versato, Egli continua a donarsi nell’Eucaristia che è il sacramento che compendia tutti i doni divini. Su quell’altare Gesù Cristo è presente realmente, veramente, Dio vero da Dio vero, con il Padre e con lo Spirito Santo. Da quell’altare deve perciò scaturire la nostra professione di fede che riconosce il primato assoluto del Signore Gesù e la sua sovrana regalità: per mezzo di Lui e in Lui sono state create tutte le cose; Lui è prima di tutto e tutto sussiste in Lui (cf. Col 1,16.17). Fuori di Lui, tutta la realtà non ha consistenza e lontano da Lui tutto è a rischio, soprattutto l’uomo.
L’Eucaristia è pertanto il cantus firmus della Chiesa, fonte e culmine della sua comunione, alimento insostituibile per la sua missione di riconciliazione ecclesiale e sociale. Da lì la Chiesa impara a essere casa di comunione nella quale trovano pronta accoglienza soprattutto i poveri di beni dello spirito e i poveri di beni materiali. Sant’Agostino scrisse: “Dio sapientissimo non sapeva fare di più; Dio potentissimo non poteva fare di più”.