DIOCESI DI TRIESTE
75° anniversario del martirio di don Miroslav Bulešić
✠ Giampaolo Crepaldi
Cappella Madre della Riconciliazione, 24 agosto 2022
Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Signore!
1. Siamo qui riuniti per commemorare il 75° anniversario del martirio di don Miroslav Bulešić, sacerdote istriano di appena 27 anni, beatificato il 28 settembre 2013 nell’Arena di Pola. Un prete martire perché fedele a Cristo e alla Chiesa, mentre attorno a lui cresceva rigogliosa la pianta velenosa dell’odio ideologico, della violenza fisica e della sopraffazione civile. Nell’agosto del 1947 gli era stato affidato il compito di amministrare il sacramento della Confermazione a Pisino, Pinguente (Buzet) e zone limitrofe, accompagnando il delegato della Santa Sede, monsignor Jakob Ukmar. Teatro del suo martirio fu Lanischie (Lanišće), paese dell’Istria settentrionale, all’epoca nel territorio delle diocesi unite di Trieste e Capodistria. Domenica 24, terminata la Messa, don Miroslav si diresse con monsignor Ukmar e il parroco, don Stefan Cek, verso la casa parrocchiale. Erano circa le undici, quando alcuni uomini entrarono in casa, bastonarono il giovane sacerdote, lo scagliarono a terra e lo uccisero con colpi di coltello alla gola. Mentre veniva così maltrattato, esclamò per due volte: Gesù, accogli la mia anima. Queste sue ultime parole sono come l'eco del brano del Vangelo che è stato appena proclamato: “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto”. Così fu per il martire don Miroslav Bulešić: dal buio omicida della terra passò ai cieli aperti del Signore a cui aveva donato la sua vita. Tutto questo risulta particolarmente evidente se consideriamo questa Cappella dedicata alla Madre della Riconciliazione – dove è collocato il tondo del beato don Miroslav Bulešić – che ricorda quegli anni bui e dolorosi ed è stata eretta per essere un monito a vivere quotidianamente il Vangelo della giustizia e della pace.
2. Carissimi fratelli e sorelle, consentitemi ora di proporre alcuni tratti di quel valoroso prete dalla fede indomita. Prima di tutto la sua singolare dedizione pastorale. In un contesto di diffusa ignoranza religiosa, di scarsa partecipazione alla messa festiva, di ritardo nell’amministrazione dei sacramenti, scriveva: “Tra il popolo afflitto e sanguinante noi dobbiamo essere come il buon Samaritano: consolare, curare, sollevare, fasciare ogni ferita...”. In secondo luogo, il suo straordinario senso della libertà cristiana. In un contesto difficilissimo e accusato di collaborazionismo con i tedeschi, mentre invece aiutava indistintamente partigiani, tedeschi e croati, scriveva: “Io sono un sacerdote cattolico ed amministro i santi sacramenti a tutti coloro che me li richiederanno: ai Croati, ai Tedeschi, agli Italiani”. A chi gli faceva notare che rischiava di essere ucciso, replicava: “Se così fosse, mi ucciderebbero per Dio e per la fede”. In terzo luogo, la sua forte spiritualità. Pur costantemente minacciato e anche investito dalla “macchina del fango”, scriveva nel suo testamento spirituale: “La mia vendetta è il perdono. Dio, perdona tutti e conduce tutti sulla retta via”. Dove trovava tutta questa forza? La risposta è semplice: dall'Eucaristia che difese negli ultimi giorni della sua giovane esistenza, ammonendo chi la voleva profanare che prima avrebbe dovuto passare sopra il suo cadavere. A suggello della sua esemplare levatura vi lascio questa sua dichiarazione ai parrocchiani: “Non ho paura di nulla perché so di fare in tutto il mio dovere, e sono tranquillo di fronte a Dio e di fronte agli uomini. Sappiate che io conserverò sempre la mia fede e la mia onestà, che non tradirò per nessuna cosa al mondo; senza paura dirò a ciascuno quello che è giusto. Mi atterrò sempre a questi principi che sono i principi di Cristo. La sua strada sarà anche la mia strada”.