Benvenuti a Trieste
A tutti i delegati e partecipanti alla 50a Settimana Sociale dei cattolici in Italia, a nome dell’intera diocesi di Trieste, dò il benvenuto.
Avrete modo di conoscere questa nostra terra di frontiera e anche di apprendere alcune pagine della sua sofferta storia, con l’accavallarsi del dramma della Risiera di San Sabba, delle foibe di Basovizza, dell’esodo dei profughi dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
Ora ci troviamo dentro questo frangente, che talvolta è pieno di contraddizioni, ma che invece può divenire un laboratorio di riconciliazione, in cui anche ad altre terre ferite indicare che si può uscire dalla violenza e dalla guerra e pazientemente percorrere vie in cui ci apriamo alla speranza, quella che Dio ci affida tramite suo Figlio.
Qualche tempo fa (nel Giorno della Memoria) scrivevo che la memoria è come la terra.
Nella Scrittura si dice che la terra va coltivata e si usa lo stesso verbo avàd per esprimere il servizio della liturgia e al Tempio.
La memoria è come la parola. Nella Scrittura si dice che la Parola va custodita e si usa un verbo, shamàr, che dice custodire, osservare, ma anche venerazione, ascolto, amore.
La memoria è come la terra che, dopo essere seminata e coltivata, dà buoni e abbondanti frutti.
La memoria può essere terra avvelenata dall’odio e resa tossica dal terrore: va bonificata perché ancora possa essere coltivata e dare buoni e abbondanti frutti.
Auguro a tutti un’esperienza in cui insieme si partecipa a costruire un futuro di speranza, guidati dallo Spirito, consapevoli che il grande patrimonio della dottrina sociale della Chiesa ancora illumina la nostra strada e insieme possiamo scriverne una nuova tappa, dentro le sfide del nostro tempo.
Da soli non riusciamo. Ma sappiamo di non poter delegare le nostre responsabilità. Non possiamo delegarle neanche a Dio. Possiamo però invocare il suo aiuto e rimanere aperti a quanto, giorno per giorno, ci indicherà nella preghiera, nella riflessione e anche attraverso i fratelli e le loro esperienze. Molte sono le modalità attraverso le quali Dio ci accompagna e ci sostiene.
Buona settimana sociale a tutti.
† Enrico Trevisi
Vescovo di Trieste
Trieste
Città di frontiera
Mappa dell'antica Tergeste e particolare dell'affresco (XIV sec.) raffigurante san Giusto martire con la città di Trieste, conservato in Cattedrale.
Trieste è una città di frontiera. La frontiera non è un confine, cioè una linea di separazione, ma un’area di sovrapposizione fra mondi diversi. Nel caso di Trieste, quello latino, quello germanico, quello slavo e quello, quasi infinito, dell’Oltremare.
La sovrapposizione, che significa incrocio, scambio e mescolanza, è stata a lungo feconda e quando si è realizzata in pieno, fra il XVIII e la metà del XIX secolo, per Trieste è stata l’età dell’oro.
Ma nella storia niente è per sempre e l’incontro si è trasformato in conflitto, aspro, sanguinoso. Ci sono voluti molto tempo, molta pazienza e molti uomini di buona volontà per rimettere assieme i cocci di quel che era stato spezzato.
Da città dell’odio Trieste si sta trasformando in città della riconciliazione, che ha l’opportunità di porre la sensibilità che le viene dalle disgrazie da poco patite, al servizio dei reietti del nostro tempo, i migranti che l’attraversano in frotte perché snodo della rotta balcanica.
Trieste nasce città romana, come tante altre nella Penisola, sopravvive perché defilata alle grandi invasioni della tarda antichità, diventa libero comune così come tanti altri municipi italici e subito si azzuffa con quelli vicini e cioè le città istriane e Venezia. Ma la Serenissima è troppo forte e così i triestini si rifugiano tra le braccia dei duchi d’Austria, assai più parchi di pretese. Tagliata fuori dal mare divenuto golfo veneziano, Trieste vivacchia fino agli inizi del Settecento. A quel punto gli Asburgo, da tempo sacri romani imperatori, usciti dalle guerre di religione e liberati dal pericolo turco, si rivolgono al mare in cerca di ricchezze. Venezia non è più in grado di difendere il suo monopolio e Trieste la sostituisce. Diventa porto franco e, decennio dopo decennio, si trasforma nella finestra dell’Europa centrale sul Mediterraneo.
Cesare Dell’Acqua, Dedizione di Trieste all’Austria, Museo Revoltella.
È una città cosmopolita, perché i commercianti richiamati dai privilegi imperiali arrivano da tutto il Mediterraneo, dalla Penisola e dal cuore del Vecchio Continente. È una città italiana perché, per capirsi fra di loro, tutti adottano il “veneto da mar”, lingua per eccellenza dei traffici. È una città tollerante, perché la tolleranza religiosa è il presupposto per attirare imprenditori dagli Stati europei e dall’Impero ottomano: pilastri delle società diventano così le nationes, cioè le comunità religiose: ebraica, serbo-ortodossa, greco-ortodossa, armena e più tardi luterana e valdese.
La chiesa di San Spiridione della Comunità Serbo Ortodossa, la chiesa di San Nicola della Comunità Greco Orientale, la Sinagoga della Comunità ebraica, la chiesa Luterana.
È una città libera, perché al governo di Vienna interessa solo che i nuovi triestini – quelli vecchi sono stati rapidamente assorbiti – guadagnino bene e generino ricchezza per l’Impero.
Non è una città rivoluzionaria, perché non le manca niente, i borghesi sono già al potere, nessuno si sente di mettere in discussione la sua fisionomia culturale italiana.
Quando arriva Napoleone, che la annette all’Impero francese, è un disastro perché l’economia marittima si ferma e quindi il ritorno dell’Austria viene salutato con giubilo. Anche nel 1848, l’anno mirabile della rivoluzione europea e della primavera dei popoli, Trieste è l’unica grande città dell’Impero asburgico dove non succede nulla. Di fronte alla nascente questione nazionale, i protagonisti della vita economica e politica cittadina affermano: “noi non siamo né italiani né tedeschi, noi siamo cosmopoliti!”. Trieste quindi è una città senza Risorgimento, che plaude alla vittoria di Lissa, che tiene libero il mare, e che vede la sua fedeltà agli Asburgo premiata con un’autonomia così vasta da non avere riscontri in tutto l’Impero.
Eppure, nel giro di pochi decenni, l’urbs fidelissima, prediletta della corona imperiale, si trasforma nella “città italianissima”, simbolo assieme a Trento dell’irredentismo italiano. Com’è possibile?
Le due parole chiave sono “masse” e “religione”. Nella seconda metà dell’Ottocento i patrioti d’ogni stirpe s’impegnano a diffondere l’idea di nazione fra le masse. Nell’Impero asburgico, che non è uno Stato nazionale, della missione si fanno carico i diversi movimenti nazionali, in feroce competizione fra di loro. Nel momento in cui cominciano a definirsi come nazione, gli sloveni scoprono che il potere ce l’hanno tutto gli italiani. Questi ultimi, da parte loro, trovano la situazione assolutamente naturale, perché così è sempre stato e perché alle spalle hanno tutto il vertiginoso edificio della cultura italiana, erede della civiltà classica, per non dire delle leve dell’economia.
La religione è quella nuova, la “religione della patria”, e quel meccanismo di tolleranza religiosa che aveva funzionato così bene con le religioni tradizionali, si scopre impotente di fronte al nuovo credo che infiamma gli animi, ha i suoi apostoli e profeti e comincia ad avere anche i primi martiri, come Guglielmo Oberdan nel 1882. Così, ogni cambio di generazione segna un passo in là nel radicalismo, gli slavi avanzano, gli italiani si chiudono a riccio nella “difesa nazionale”, le autorità vogliono trasformare Trieste da città italiana in “città delle nazioni”, i più arditi fra gli sloveni sognano uno stato degli slavi del sud all’interno dell’Impero con Trieste polmone e capitale effettiva di una Slovenia unita, i più giovani fra gli italiani si proclamano “irredentisti”, come dire che la Salvezza nazionale può venire solo dall’annessione all’Italia.
Questo avviene dopo la Grande guerra, che segna il tracollo dell’Austria. L’Italia è accolta dalla maggior parte dei triestini con incredibile entusiasmo, dopodiché la città è rovinata. Non è cattiva volontà o incapacità dei patrii governi: semplicemente, Trieste non serve più a nulla. Non c’è più un potere statale che indirizzi per ragioni politiche tutti i traffici del retroterra attraverso il porto giuliano. La Mitteleuropa è frammentata in tanti staterelli che si guardano in cagnesco, per l’Italia Trieste è solo uno dei tanti porti della Penisola, periferico ed in concorrenza con gli altri.
Mentre l’economia si ferma, la passione nazionale no. Scomparsa l’Austria che cercava di tener buoni tutti, negli Stati successori i gruppi nazionali che si ritrovano dalla “parte giusta” della frontiera scagliano contro i loro “nemici storici” tutta la forza delle pubbliche istituzioni. In tutto l’ex Litorale Austriaco, ora denominato Venezia Giulia, ciò accade a vantaggio degli italiani dopo la prima ed a vantaggio degli slavi dopo la seconda guerra mondiale. Ad aggravare la situazione concorrono i regimi totalitari. A Trieste il fascismo si fa chiamare “di confine”, per sottolineare che qui ha un nemico in più rispetto ai democratici e ai socialisti italiani e cioè gli slavi di fuori – il Regno dei serbi, croati e sloveni, che vorrebbero veder saltare per aria – e quelli di dentro, le minoranze slovena e croata che vorrebbero veder sparire. Una volta al potere ci provano per davvero, mediante una durissima politica di snazionalizzazione. Per mancanza di tempo, non ci riescono in pieno, ma intanto scavano un solco di odio e violenza fra italiani e slavi: nasce quindi un nuovo irredentismo, sloveno e croato, nella forma di movimento ovviamente clandestino, armato, terrorista, prima nazionalista e poi comunista.
Trieste sta diventando così, dopo essere stata un esempio di tolleranza ed integrazione a cavallo fra antico regime e modernità, un laboratorio della contemporaneità nei suoi aspetti più biechi e distruttivi. Dopo la persecuzione degli slavi arriva quella degli ebrei, che sconvolge la città perché buona parte dell’élite economica e della dirigenza politica già nazionalista e irredentista, è di origine ebraica.
Incendio del Narodni Dom (13 luglio 1920) e proclamazione delle leggi razziali da parte del Duce in piazza dell'Unità d'Italia (18 settembre 1938).
E poi arriva un’altra guerra, che va quasi subito male. Il fronte si avvicina alla città prima ancora che gli alleati sbarchino in Sicilia, perché dalla Jugoslavia occupata dalle truppe italiane e dalla Slovenia annessa come provincia di Lubiana, il movimento partigiano a guida comunista si estende rapidamente alla Venezia Giulia ed agli inizi del 1943 si spara alla periferia della città. E poi ancora il disastro: l’8 settembre, il crollo dello Stato, l’occupazione tedesca che crea una Zona di operazioni Litorale Adriatico di fatto staccata dall’Italia dove vigono le logiche del fronte orientale, di cui è simbolo la Risiera di San Sabba, campo di morte che non ha riscontri nell’Europa occidentale.
Anche la Resistenza è diversa: ce ne sono due, una italiana ed una slovena, che non riescono ad andar d’accordo fra di loro. Prova ne sia che il 30 aprile 1945, unico caso in Europa, contro i tedeschi scattano due insurrezioni parallele e concorrenziali, quella del CLN e quella di Unità operaia, organizzazione comunista a guida slovena.
Ma non basta. Anche le liberazioni sono due e antagoniste. Il 1 maggio arriva l’armata jugoslava e gli sloveni possono finalmente festeggiare nella loro lingua, mentre migliaia di italiani vengono arrestati e molti, troppi, non torneranno. Il 9 giugno gli jugoslavi devono ritirarsi e il potere viene assunto da un Governo militare alleato: questa volta sono gli italiani a scendere in piazza e gli sloveni a disperarsi.
Il dramma dell'esodo delle genti istriane, fiumane e dalmate
Seguono quasi dieci anni di destino sospeso, sotto amministrazione provvisoria alleata. Non si sa come andrà a finire e la società tutta si divide in Italia e Antitalia. Sono dieci anni di passione continua, di esasperazione politica, di odio nazionale, di campagne propagandistiche finanziate dagli Stati concorrenti con somme incredibili, di morti per le strade. Dopo la crisi del Cominform del 1948 anche i comunisti si dividono e si ammazzano fra di loro.
Nell’ottobre del 1954 torna l’Italia e trova una città intossicata dalla continua mobilitazione e dall’economia artificiale creata dagli anglo-americani. Di nuovo i triestini si entusiasmano per i bersaglieri e poi la “normalizzazione” è traumatica. Disperati, più di 25mila triestini se ne vanno in Australia, ma in città arrivano molto più numerosi gli istriani in fuga dalla Jugoslavia comunista.
La partenza degli emigranti giuliani verso l'Australia.
Appena negli anni ’60 si comincia a vedere qualche luce. La nuova classe dirigente cattolico-democratica, favorita dalla politica nazionale del centro-sinistra, decide di ribaltare tutto: invece di ghettizzarla, integrare la minoranza slovena; trasformare il confine da barriera che soffoca la città, in ponte con la Jugoslavia e gli Stati dell’est. Funziona, e decolla un’economia transfrontaliera, perché da tutte le parti della Jugoslavia accorrono a Trieste compratori affamati dei beni di consumo introvabili in patria. Le comunità nazionali cominciano a parlarsi, si creano occasioni di dialogo culturale, si crea il mito del “confine più aperto d’Europa”, regioni italiane, austriache e tedesche danno vita, assieme alla Slovenia e Croazia jugoslave, alla comunità di lavoro “Alpe-Adria”. Poi alla fine degli anni ’70 la Jugoslavia comincia ad andare in affanno, le folle di acquirenti spariscono, grandi progetti di collaborazione industriale rimangono nel cassetto. Trieste si ferma di nuovo. Si muove solo una grande intuizione, quella della “città della scienza”, che in pochi anni crea istituzioni di ricerca di valenza mondiale.
Infine, quando nessuno se l’aspetta, crolla il muro di Berlino, crolla l’Unione sovietica, sparisce il comunismo, crolla anche la Jugoslavia. In tutta Europa ne segue un gran caos, fra entusiasmi e disillusioni. Trieste ci mette un po’ a prendere le misure, ma poi riparte e – dopo tanto tempo – il golfo si riempie nuovamente di navi. Nel clima nuovo, la città diventa anche un laboratorio di riconciliazione, tanto che nel 2010 i presidenti delle repubbliche di Italia, Slovenia e Croazia si incontrano nei luoghi simbolo delle memorie divise e sanguinanti del terribile ‘900.
Il concerto dei tre Presidenti, Napolitano, Türk e Josipović, diretto dal maestro Muti in piazza dell'Unità (13 luglio 2010).
I Presidenti Mattarella e Pahor alla Foiba di Basovizza (13 luglio 2020).
Oggi tutto si muove, non si sa verso dove. Un giorno il porto trabocca di container e le rive di croceristi, quello dopo magari si blocca il mar Rosso e si chiude il canale di Suez. Nella piazza davanti alla stazione ferroviaria campeggia il monumento all’imperatrice Sissi, poco più in là quello agli esuli istriani. In mezzo, nel giardino, si affollano centinaia di migranti che cittadini solidali cercano di medicare e rifocillare. Dietro, l’imponente edificio del silos che nel dopoguerra offrì precario asilo agli italiani in fuga dall’Istria, è oggi l’ancor più precario e malsano rifugio per afgani, iraniani, siriani, pachistani e tanti altri esseri umani in fuga da persecuzioni e povertà.
Solo il Signore sa quel che succederà domani.
prof. Raoul Pupo
Docente del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
dell’Università degli Studi di Trieste