Lunedì 29 giugno, alle ore 19.00, sul piazzale antistante la Cattedrale di San Giusto si terrà la cerimonia dello scoprimento e benedizione del busto di S.E. Mons. Antonio Santin collocato sulla facciata della Cattedrale a memoria del grande Vescovo, Defensor Civitatis.
Il busto, opera dello scultore Marcello Mascherini, fuso presso la fonderia Railz di Moimacco, è stato collocato su mensole in pietra d’Aurisina. I lavori, coordinati dall’architetto Eugenio Meli ed esuguiti dalla ditta Rosso costruzioni, sono stati concordati con la Soprintendenza che ha seguito la progettazione e i lavori attraverso l’architetto Francesco Crecich.
Ad introduzione della cerimonia, il Quartetto d’archi della Camerata Strumentale Italiana eseguirà il Pater Noster di Antonio Smareglia.
Mons. Antonio Santin, ebbe i natali a Rovigno il 9 dicembre 1895. Primogenito degli undici figli di Antonio e di Eufemia Rossi, lui marinaio e lei operaia in tabacchificio. Frequentò le scuole prima a Rovigno e poi presso il ginnasio di Capodistria. Cominciò i suoi studi teologici presso il seminario di Gorizia che nel periodo della prima guerra mondiale spostò la sua sede nel monastero cistercense di Stična. Fu ordinato presbitero il 1° maggio 1918 dal vescovo di Trieste Andrea Karlin. Fu incardinato nella diocesi d’origine, Parenzo-Pola. Il 5 maggio 1918 celebrò la prima messa a Vienna, essendo la famiglia internata in un campo profughi in quella regione. Fu nominato Vescovo di Fiume il 10 agosto del 1933 e Ordinato Vescovo il 29 ottobrre dello stesso anno. Il 16 maggio 1938 fu nominato Vescovo delle Diocesi unite di Trieste e Capodistria. Il 13 luglio 1963 Papa Paolo VI lo insignì del titolo ad personam di Arcivescovo. Si ritirò, secondo le nuove disposizioni del Concilio Vaticano II a cui partecipò, il 28 giugno 1975. Morì il 17 marzo 1981 ed è sepolto a Trieste, nella cattedrale di S. Giusto.
Di seguito riportiamo un articolo del prof. Roberto Spazzali sulla figura di mons. Santin, pubblicato da Il Piccolo il 17 marzo del 2011, in occasione del trentennale della sua scomparsa.
«Esattamente trent’anni fa si spegneva monsignor Antonio Santin, ultimo arcivescovo di Trieste e Capodistria. Se si dovesse stilare una graduatoria delle personalità che hanno caratterizzato per impronta e carisma il Novecento triestino, sicuramente gli spetterebbe il primo posto. In una città laica, non anticlericale, come Trieste sarebbe un riconoscimento per nulla clamoroso, per quanto egli ha rappresentato nel lungo episcopato tergestino, 37 anni, dal 1938 al 1975 e prima ancora per un quinquennio alla guida della diocesi di Fiume. Tutti i triestini che hanno superato il mezzo secolo di vita lo ricordano perfettamente come presule e come uomo, quando si è trovato al cospetto della Storia e delle vicende più drammatiche che essa ha riservato a Trieste nel XX secolo, svolgendo fino in fondo un compito che poi gli ha consegnato la solenne attribuzione di “defensor civitatis”, ma anche più bonaria e non meno pregnante si significato, coniata da Pier Antonio Quarantotti Gambini, di “vescovo con gli speroni” per la determinazione dimostrata nei momenti cruciali quando egli dovette impugnare il Pastorale e brandirlo, non appoggiarvisi, per difendere la sua comunità dalle spade sguainate. Tra le molte immagini che raccontano il suo lungo ufficio mi vengono in mente subito quelle note ma significative di un giovane monsignor Santin, appena nominato vescovo, che affronta perentoriamente Mussolini sul sagrato di San Giusto provocandone l’irato stupore, oppure quella che lo vede qualche anno più tardi, quasi nello stesso luogo, a trattare la resa del presidio tedesco e scongiurare così la distruzione della città. Ma non si può dimenticare quella di Santin, con il volto tumefatto, vilipeso ed offeso, rientrare da Capodistria dove era stato ordito un odioso agguato e un disegno criminale di ucciderlo, magari con una pietra al collo, nel golfo di Trieste. 1938, 1945, 1947, tre date e tre momenti della storia, ma si potrebbero indicare anche altre date ed altri momenti in cui dovette assolvere al vuoto del potere e rappresentare la tutta la sua gente e in particolare gli esuli giuliano-dalmati cui si sentiva parte. C’è ampia letteratura sul suo episcopato (Guido Botteri, Sergio Galimberti, Ettore Malnati, Pietro Zovatto), oltre le sue memorie e i suoi scritti e tutte le innmerevoli citazioni da coloro che si sono occupati della storia contemporanea della Venezia Giulia. Quattro anni fa il Comune di Trieste organizzò pure una mostra fotografica e documentaria. Un fatto straordinario per un uomo di Chiesa a riprova della rilevanza che egli ha avuto, di un uomo che è stato immensamente amato ed altrettanto temuto e perfino odiato dai suoi detrattori e dagli avversari, perché egli rivestì proprio nei momenti più difficili il duplice ruolo di guida della chiesa tergestina e di pubblica autorità morale ed istituzionale. Anche per questo il giudizio indubbiamente risente del periodo storico in cui si espresse il suo lungo operato. Carattere determinato che seppe e volle trattare le autorità politiche e militari da una posizione di autorevolezza morale che egli rappresentava nel pieno esercizio di una istituzione di primo rango. Senza ripercorrere per intero la sua vita non si può ignorare l’origine popolare istriana – era nato a Rovigno – i suoi studi ginnasiali e seminariali sotto l’impronta austro-ungarica, l’ordinazione nelle mani del vescovo di Trieste monsignor Karlin, l’esperienza da parroco a Momorano e poi a Pola. Giunse a Trieste succedendo a monsignor Luigi Fogar, duaramente osteggiato dai fascisti, e dovendo così superare le perplessità iniziali. Fermo nella obbedienza al Pontefice egli dovette fare pure i conti con un regime fascista, nato pagano, che compì la perfetta saldatura di regime con i Patti Lateranensi senza tuttavia riuscire a piegare la Chiesa all’ideologia. Consapevole di ciò, seppe allora affrontare Mussolini, per due volte, perorando anche la causa degli ebrei perseguitati e cercando di trovare una soluzione alle ostilità poste dai gerarchi locali al clero sloveno e croato, disse quello che doveva dire ai nazisti tedeschi, ai comunisti jugoslavi, ai generali anglo-americani, ai funzionari governativi italiani. La gente comune lo ricorda ancora dietro le bare dei sei caduti del novembre ’53 ed accanto gli operai del cantiere San Marco minacciato di chiusura nel ’66. Dovette affrontare gravi crisi all’interno del clero di una diocesi, dopo il 1945, divisa da una frontiera anche ideologica, ma anche le trasformazioni del mondo cattolico con il Concilio Vaticano secondo, le incomprensioni con Azione Cattolica, i difficili rapporti con la Dc morotea alle prese con il centrosinistra. Certo, va riconosciuta l’intransigente difesa dell’autonomia dell’istituzione ecclesiastica ma anche l’indubbio impegno pastorale, come il sostegno all’opera missionaria in Kenya, con significative proiezioni civili. E proprio per la complessità della figura e del suo tempo Antonio Santin attende ancora una biografia completa e ragionata».