Catechesi d'Avvento
Il rinnovamento missionario della mentalità ecclesiale e delle prassi pastorali
✠ Enrico Trevisi
Santa Caterina da Siena, 8 dicembre 2024
Cari fratelli e sorelle, amati fratelli e sorelle: Ljubljeni bratje in sestre
La seconda parte dei Lineamenti del Sinodo delle Chiese in Italia inizia così:
“La dimensione ecclesiale o pastorale della riforma della Chiesa, prima che di tecniche e metodi, è questione di mentalità e di prassi, la cui coniugazione si connette prima di tutto alle dimensioni della cultura e della profezia”.
Dunque non si tratta di cambiare qualche metodologia, ma il modo di pensarci chiesa e di svolgere la missione che il Signore ci affida.
La riflessione si svolge in tre paragrafi: Cultura e profezia; Comunicazione e linguaggi; la parola profetica dei giovani. Non è possibile sintetizzare e commentare la ricchezza degli spunti proposti. Mi limito a coglierne l’afflato e a ridirlo anche con qualche esempio.
Cultura e profezia. Si insiste sulla costatazione che per l’Occidente oggi il Vangelo sembra essere diventato insignificante. Da qui la richiesta di rileggere e ridire il Vangelo e il cristianesimo “che respiri realmente dei paradigmi culturali del nostro tempo, pena la sua insignificanza” (n. 17). Il “«rendere ragione della speranza» (1Pt 3,15) è un aspetto essenziale della missione ecclesiale: se non fa cultura, la fede rimane campata per aria, perché la cultura è la vita delle persone e delle comunità letta nei suoi valori e significati. Si registrano, in questo contesto, marcate divisioni tra i cattolici, troppo spesso più sensibili alle appartenenze ideologiche e partitiche che a quella ecclesiale” (ivi).
Io penso che sia necessario che i cattolici si impegnino nella vita pubblica, ma anche che debbano mantenere una differenza tra l’appartenenza al partito e l’appartenenza alla chiesa, alla comunità cristiana. Talvolta l’appartenenza ideologica sembra più forte, totalizzante, rispetto al riconvertirci continuamente al Vangelo. Ma sappiamo che quando viene a mancare una riserva critica nei confronti della propria doverosa appartenenza politica e la si assolutizza, si lascia che prenda il posto che compete solo a Dio. Dobbiamo ritrovare il senso e il limite dell’adesione alle ideologie e ai partiti. Dalla storia impariamo che talvolta diversi cattolici furono ciechi, poco attenti ai segni premonitori che alcune ideologie politiche stavano mostrando e che poi ammaliando le coscienze portarono ad assecondare ciò che invece andava denunciato e combattuto.
Siamo invitati, sulla scorta dell’insegnamento dei diversi pontefici, a non avere paura, a dar voce a tante esperienze – pensiamo a tutte quelle presentate nelle piazze di Trieste durante la settimana sociale dei cattolici – “correlandole, mostrandone la ragionevolezza, proponendole come cammini possibili” (n. 18). Tutti impegnati ad elaborare le possibili mediazioni oggi necessarie per inculturare il Vangelo.
“La profezia in altre parole è la capacità di declinare quello che del cristianesimo “fa la differenza” nella cultura in cui esso è chiamato a vivere” (19) che talvolta vuol dire entrare in dialogo e talvolta denunciare ciò che va respinto (per esempio quando è tolta la voce ai poveri e agli oppressi).
“Non siamo obbligati a scegliere tra dialogo e annuncio, ma siamo metodologicamente coinvolti su entrambi i fronti, se vogliamo obbedire al comando missionario di Gesù”.
Occorre tenere insieme la carità e la verità, ma anche riconoscere i processi storici, i processi educativi e culturali. Si tratta di una sfida grande che viene sintetizzata nella commistione tra vita e pensiero, come di una “esperienza pensata” alla luce del Vangelo. E anche con il coraggio di alcune scelte, di alcuni segni anticipatori di quel Regno di Dio che è già iniziato ma non ancora in pienezza realizzato, il già e non ancora di cui ci parla la Scrittura.
Comunicazione e linguaggi. Si tratta di paragrafi molto densi e che trattano molti temi assai differenti. Si è detto che non si tratta solo di rinnovare gli strumenti della comunicazione ma anche che la Chiesa sinodale ha imparato mettersi in ascolto delle fatiche e sofferenze, delle domande e delle inquietudini di tante persone: da qui la necessità di “un esercizio spirituale di riconoscimento del vissuto umano come luogo teologico, in virtù del principio dell’incarnazione” (n. 21).
Si è segnalato che la relazione tra liturgia e vita dei fedeli appare uno dei nodi più problematici (n. 22). Non è questo il momento per sviscerare il problema, dico solo che il tentativo di ripensare al rito delle esequie e a togliere alcune criticità rientra in questa prospettiva: far sentire alle comunità che quella liturgia parla alla loro vita, alle loro inquietudini, ai loro dubbi, alle loro speranze. Vivo è il desiderio che – in modo migliore rispetto a quanto avviene – l’azione rituale sia incontro con Dio e con i fratelli, sia nutrimento per la propria fede. Non è facile trovare le strade opportune, non si tratta semplicemente di aggiungere o togliere qualcosa, ma sappiamo che questa sarà una sfida da cogliere.
Certamente l’arte del celebrare va curata continuamente. E in essa saper cogliere lo spessore umano concreto di chi sta nell’assemblea, perché quel rito possa davvero essere vissuto come incontro con Dio e i fratelli e nutrimento della fede.
La parola profetica dei giovani. Nel testo le osservazioni sono assai scarne. Qualcuno nell’Assemblea sinodale ha proposto che questi paragrafi potevano essere incrementati (così pure quando si tratta in alte parti delle donne), come anche dare spazio a qualche riflessione sulla famiglia e sul lavoro.
Da una parte dovremmo riconoscere che un po’ di giovani ci sono… e che dovremmo imparare ad ascoltarli, ma davvero. Ascoltare le loro inquietudini e le loro speranze e non a metterci subito a spiegare loro la dottrina. Ma poi tante persone hanno in famiglia, a scuola, sul lavoro giovani che non frequentano e con i quali interagire per accogliere anche da loro una parola profetica.
Certamente ci sono tanti ostacoli e condizionamenti con i quali i giovani hanno a che fare. Ma pure dovrebbe esserci una chiesa, uomini e donne che hanno colto l’amore di cristo, e che nulla è più come prima.
Di testimoni abbiamo bisogno. Ma anche di conversione da alcuni metodi e linguaggi che si sono cristallizzati e che non sanno scaldare il cuore dei giovani.
Non possiamo pensare che la conversione comunitaria-personale-strutturale di cui si è parlato nella prima parte coinvolga solo gli altri e non quanto noi (nella nostra parrocchia, associazione, movimento) proponiamo. Non può esserci la cristallizzazione di un carisma che priva allo Spirito di rinnovarlo per tempi che mutano.
Io non ho ricette: ma questo è un bene. Come Chiesa saremo chiamati a camminare e in sinodalità non solo scambiarci qualche pensiero spirituale ma a far sì che lo Spirito ci illumini su come oggi gioiosamente dare la vita per il Vangelo.