STORIA
Storia della Diocesi di Trieste
prof. Giuseppe Cuscito
testo tratto dalla conferenza tenuta presso il Seminario Vescovile il 16 aprile 2015
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Premessa
È compito arduo tracciare un profilo storico sintetico di una comunità diocesana bimillenaria: per questo mi vedo costretto a limitare il quadro a pochi passaggi significativi e a personaggi emblematici in grado di illuminare l’itinerario istituzionale di questa Chiesa tergestina che si incarna nella storia della città non sempre con segni profetici e talora subendone inevitabili condizionamenti. Entro le strutture di una Chiesa giuridica sarebbe nostro compito indagare in quali forme concrete si siano realizzate le istanze di un’autentica comunità evangelizzante, ma su questo fronte lo storico si muove a disagio perché la documentazione si fa molto più rara specie nello spazio limitato di un territorio diocesano, mentre gli atteggiamenti spirituali sfuggono in larga misura agli strumenti della verifica critica. D’altronde è stato osservato a proposito della Chiesa feudale che, appunto perché divenne feudale nell’età del feudalesimo, l’organismo ecclesiastico rimase vitale e ravvivò la società contemporanea in campo civile e religioso.
1) Un catecumenato collettivo e arcano e la tradizione martiriale
Chi tenta di scrivere la storia di una Chiesa locale spesso si trova di fronte a documenti che interessano vicende istituzionali legate per lo più a concessioni di privilegi o a conferma di diritti acquisiti, mentre fanno difetto testimonianze sulla spiritualità del clero e del popolo fedele, come pure sulla riflessione critica della pastorale praticata. Quando manchino decreti di assemblee sinodali o eccezionali figure di vescovi e voci di una coscienza riflessa, bisogna attendere l’età contemporanea per trovare spunti al riguardo nelle lettere pastorali dei vescovi. Per età precedenti, siamo generalmente privi di testi sui contenuti della predicazione e della catechesi, come sulla formazione culturale del clero diocesano, tanto che si può avere l’impressione di una pratica pastorale esercitata per periodi di lunga durata secondo schemi fissi e moduli prestabiliti senza formule innovative e slanci di creatività in un tessuto sociale completamente permeato dalla religione cristiana e animato dalle sue liturgie.
Così non è se consideriamo le fonti cristiane dei primi secoli, quando il fermento evangelico era ancora una novità ed era al centro dell’attenzione specie in quelle Chiese privilegiate rette da vescovi impegnati non solo sul fronte della missione ma anche su quello della comunicazione e della scrittura. È il caso della Chiesa aquileiese, che, sullo scorcio del IV secolo, ha avuto la fortuna di poter vantare un vescovo come Cromazio, attento alla parola di Dio e a cogliere i momenti più opportuni per presentarla ai suoi fedeli e trasmetterla fino a noi.
Ma, a parte le tradizioni incontrollate che collegano la cristianizzazione del nostro territorio all’iniziativa del protovescovo aquileiese Ermacora in età apostolica, resta assodato che nulla o quasi conosciamo, su basi critiche, della comunità ecclesiale di Tergeste in epoca precostantiniana. I nuclei tradizionali che possiamo faticosamente recuperare attraverso fonti posteriori, o almeno posteriormente rielaborate, si riducono per lo più ai nomi di alcuni martiri, stranamente mai di vescovi, salvo che tali non siano stati quelli cui è riferito il ricorrente appellativo di presbiteri.
Le vicende di questi santi sono narrate da leggende agiografiche molto recenti, assai simili tra loro e imparentate con le altre leggende dell’Istria: pertanto, a eccezione di Giusto e di Servolo, vi sono ragioni per credere che non si tratti di martiri locali, bensì di culti e di reliquie importati da altre sedi dell’arco adriatico e perfino dal Mediterraneo orientale che hanno ricevuto onore e accresciuto la fede.
In conclusione, a parte la Passio di S. Giusto, caratterizzata da una narrazione semplice senza complicati tormenti e strepitosi prodigi, si può dire che, nella maggior parte dei casi, i testi dell’agiografia tergestina siano da considerarsi più come testimonianza delle tradizioni locali all’epoca della loro compilazione che non come fonte per la storia del primo cristianesimo locale. Di Giusto, laico adulto della nascente comunità cristiana, la tradizione agiografica ha trasmesso poche e scarne notizie, avendo inteso offrire piuttosto la rappresentazione “iconica” e drammatica di una vicenda personale e di un tipo proposto come figura emblematica della fede per questa Chiesa locale.
Anche la cronotassi episcopale non ci è d’aiuto, se consideriamo che il primo vescovo noto è appena Frugifero, che intorno alla metà del sec. VI, lascia memoria di sé nei restauri e nelle modifiche della basilica episcopale impiantata nel cuore della città romana e innestata al monumentale propileo già nel corso del sec. V, sul sito del presunto Capitolium; Frugifero è contemporaneo o quasi di grandi vescovi costruttori di basiliche nel corso del sec. VI, come Massimiano a Ravenna, Elia a Grado ed Eufrasio a Parenzo.
2) La Chiesa in espansione: riscontri archeologico-monumentali
Ad accrescere i nostri dubbi sull’esistenza di una gerarchia ecclesiastica locale per la seconda metà del sec. IV intervengono gli Atti del concilio antiariano convocato ad Aquileia nel 381, che non tramandano con certezza alcun nome di vescovo triestino o istriano in quella trentina di partecipanti. Inoltre la presenza di monete in bronzo rinvenute intorno alle sepolture nel sepolcreto di via Donota e databili tutte entro il secolo IV ricorda l’uso pagano di fornire al defunto l’obolo per il passaggio all’oltretomba e sembra attestare una resistenza all’espansione cristiana tuttavia in atto.
D’altronde il periodo tra il primo annuncio del Vangelo e lo stabilizzarsi di una sede episcopale può essere stato non breve, anche per la difficoltà di formare in poco tempo persone idonee al ministero gerarchico. È un periodo di attività silente e nascosta che prelude alla formazione gerarchica della Chiesa, una specie di catecumenato collettivo e arcano, d’intima fermentazione e di perigliosa espressione.
Tuttavia non mancano indizi di un’espansione cristiana anche a Tergeste tra il IV e il V secolo, se il culto di Mitra, di pur lunga e consolidata tradizione nella grotta sulle falde dell’Ermada presso il Timavo, non fu in grado di sostenere il confronto col cristianesimo e se la basilica martiriale di via Madonna del Mare, ultimamente scoperta al di là della cinta urbana e già molto frequentata dagli studiosi, può attestare almeno per la seconda metà del sec. V l’esistenza di una comunità liturgicamente organizzata intorno a un sacro deposito di reliquie destinate al loculo sotto l’altare.
Uno degli apporti più felici di questa scoperta di cinquant’anni fa è la serie nutrita delle iscrizioni che si leggono sui due successivi strati della pavimentazione musiva databili fra il V e il VI secolo. Esse sono le uniche voci sicuramente autentiche della prima comunità cristiana di Tergeste e ci tramandano 18 nomi appartenenti a umili fedeli e a personalità talora rilevanti, come due defensores sanctae ecclesiae Tergestinae e due defensores sanctae ecclesiae Aquileiensis (una sorta di avvocati laici della Chiesa), che attestano una somiglianza di organizzazione interna fra le due Chiese, primaziale e suffraganea, vicine nella stessa offerta, e postulano anche per Tergeste gli altri quadri della gerarchia e dell’organizzazione ecclesiastica.
Almeno dal sec. X la Chiesa tergestina è in grado di presentare prove documentali sul culto ormai consolidato del suo principale patrono, di cui già prima doveva aver rielaborato per l’uso liturgico il testo della Passio di incerta datazione, anche se con probabili indizi di una redazione anteriore e di una tradizione genuina. Tali testimonianze si riferiscono alle concessioni di re e imperatori alla sancta Tergestina ecclesia quae est constructa in honorem praeclarissimi Iusti martiris. Per i secoli successivi invece le testimonianze si moltiplicano attraverso l’espressione delle arti figurative, a cominciare dalla figura musiva di S. Giusto che, assieme a S. Servolo, affianca il Redentore (sec. XII-XIII) nell’absidiola sud della cattedrale.
Fra i numerosi problemi tuttora aperti sulle origini e sul primo articolato sviluppo della Chiesa locale, uno è quello relativo alla cristianizzazione del territorio e alla più antica rete plebanale qui stabilitasi: la prima testimonianza scritta per la conoscenza della topografia ecclesiastica della diocesi tergestina è un elenco di benefici, ai quali nel 1272 era stato intimato il pagamento di una contribuzione a favore del legato pontificio in visita a queste regioni: si possono così riconoscere 12 pievi su un territorio di notevole estensione fra l’altopiano carsico e l’Istria settentrionale.
3) La Chiesa scismatica: lo scisma dei Tre Capitoli
Il nome di un successore di Frugifero e forse anche immediato, Severo, è trasmesso dalle sottoscrizioni dei vescovi intervenuti, il 3 novembre 579, al sinodo scismatico di Grado, dove il metropolita di Aquileia Elia (571-587) ribadì, assieme ai suoi suffraganei, la fede inconcussa nel concilio di Calcedonia (451) ma anche la resistenza alla linea dottrinale di Roma sulla condanna dei Tre Capitoli voluta da Giustiniano e ratificata da papa Vigilio: era una di quelle eclissi parziali al criterio del primato romano registrate talora dalla storia fra i membri della cristianità e persino nella coscienza di alcuni vescovi.
Rientrata in comunione con Roma per opera di Firmino nel 602, la Chiesa tergestina diede due eminenti figure di patriarchi: Giovanni (766 ca-803) e il nipote Fortunato (803-826), entrambi fautori dei carolingi e del loro regno italico, dopo la sconfitta della dinastia longobarda (774).
4) La Chiesa potente: il potere temporale del vescovo
La crescente impotenza del potere centrale a fronteggiare le nuove, incessanti minacce di Ungari, Slavi e Saraceni, obbligò la città a provvedere da sola alla propria difesa, avendo come unico punto di riferimento il vescovo e la Chiesa locale, che si erano assunti il compito di organizzare la difesa, di coordinare l’assistenza e di intraprendere l’opera di ricostruzione.
Le concessioni sovrane ai vescovi triestini si collocano appunto nel periodo delle rovinose invasioni ungare dopo l’894: è datato all’8 agosto 948 il diploma con cui Lotario II compensò i meriti acquisiti dalla Chiesa locale durante quelle calamità con nuovo amplissimo privilegio di diritti immunitari per l’esercizio delle pubbliche funzioni in sostituzione del re: allora furono infatti cedute al vescovo Giovanni e ai suoi successori tutti i diritti che il regno d’Italia aveva su Trieste e fu esclusa la dipendenza della città da ogni giurisdizione superiore che non fosse quella del vescovo, fatto unico signore delle mura e delle porte e designato così alla difesa dei cittadini.
Secondo un giudizio di Attilio Tamaro, esponente accreditato della storiografia ufficiale giuliana dopo l’annessione di Trieste all’Italia, attorno al vescovo, ancora eletto dal clero e dal popolo, si sarebbe costituito, in certo modo, quasi una prima fase della vita comunale, mentre gli interessi della classe dominante e della città si accordavano con quelli del clero e del vescovo.
Questa è la condizione istituzionale della Chiesa tergestina mantenutasi con alterne vicende fino alla fine del Duecento, quale risulta dai pochi documenti, pervenutici talora anche attraverso una tradizione manoscritta assai discussa.
Successivamente i vescovi di Trieste scelsero di gravitare nell’orbita della politica ghibellina dello stato patriarcale di Aquileia per evitare la concorrenza e l’assorbimento da parte della minacciosa e incombente potenza veneziana ed esercitarono le loro prerogative giurisdizionali e signorili, come il diritto di zecca, ma non si chiamarono conti che molto più tardi, quando avvertirono la fine imminente di ogni effettivo dominio di fronte al sorgente Comune.
5) La Chiesa umiliata: i primordi dell’istituto comunale e la fine del potere temporale del vescovo
Trieste fu l’unica delle città istriane in cui il sorgente Comune dovette contendere al vescovo la legittima signoria avuta, come si è detto, per concessione sovrana. I vescovi triestini, d’altra parte, erano stati costretti a incontrare forti debiti per sostenere la causa dell’imperatore e del patriarca contro i Comuni, per difendersi dal duca di Carinzia e dai briganti della Carsia, per pagare le contribuzioni alla curia pontificia e per la partecipazione al concilio di Lione (1245).
Il vescovo Volrico de Portis non fu in grado di opporsi alla vigorosa tendenza autonomistica della classe dirigente del Comune triestino e il 25 maggio 1253, per fronteggiare la drammatica situazione finanziaria del proprio episcopato (cum ecclesia Tergestina foret magnis debitis et variis aggravata propter magnas expensas et sumptus…), col consenso del Capitolo cattedrale, cedette per 800 marche ai consoli del Comune una serie di diritti temporali sulla città.
Il de Vergottini non riteneva esagerato affermare che la cessione vescovile del 1253 è la vera magna carta del Comune autonomo di Trieste, mentre il Tamaro ossevava che con tali atti “il vescovo aveva cessato di essere il rappresentante dell’Impero ed era divenuto il semplice pastore di una città indipendente”.
6) L'insediamento francescano
In questo periodo di travaglio ai primordi dell’istituto comunale e di incertezza nell’organizzazione della Chiesa, si insediarono anche a Trieste, come a Capodistria, a Pola, a Parenzo e a Pirano, i Minori francescani, ma non sappiamo se la loro presenza si sia qui radicata quasi spontaneamente, sulla scia dell’entusiasmo religioso sollevato dalla parola di un predicatore eccezionale e carismatico, quale fu S. Antonio di Padova, come vuole una tradizione incontrollata, o se furono le ardenti fazioni cittadine a indirizzare qui i frati come mediatori di pace.
7) La Chiesa funzionale all’Impero: la “dedizione” di Trieste all'Austria e le provvisioni di Chiesa
La discussa “dedizione” di Trieste e di quasi tutta la diocesi ai domini della Casa d'Austria, stipulata a Graz il 30 settembre 1382, segna certo uno dei momenti culminanti della storia triestina non senza ricadute sulla vita della Chiesa locale: da allora infatti fino al 1918 i vescovi triestini furono scelti tra i prelati accetti alla Casa d'Austria e col beneplacito degli Asburgo, con preferenza a personalità impegnate nel servizio all'Impero. Inoltre fino al concilio di Costanza (1414-1418), nei primi decenni del sec. XV, le provvisioni di Chiesa furono turbate dal Grande Scisma d'Occidente (1378-1417), triste retaggio della cosiddetta “cattività avignonese” del papato, che, com'è noto, aveva diviso la cristianità in due obbedienze, una romana e una avignonese.
8) Vescovi contrastati
L'ambiente non era facile sia per l'ininterrotta decadenza commerciale di cui Trieste soffrì nel corso del Quattrocento, sia per le competizioni e i contrasti fra il Capitolo, che da secoli vantava il suo diritto nella designazione dei vescovi; il pontefice, che ormai avocava a sé la nomina; il Comune, che pretendeva il diritto di presentazione e quello di amministrare i beni della mensa vescovile nelle vacanze di sede; e il duca d'Austria, che, come signore territoriale, pretendeva per sé la nomina, secondo quanto ebbe a ribadire al Capitolo il duca Ernesto nel 1406. Perciò i vescovi designati da Roma, spesso ricusati dal Capitolo che voleva conservare il diritto di nomina, talora furono costretti a rifugiarsi a Muggia.
Solo l'episcopato triestino del senese Enea Silvio Piccolomini (1447-1450), concordato nel 1446 tra papa Eugenio IV e l’imperatore Federico III, si presenta come una parentesi relativamente tranquilla in una situazione politica e sociale problematica, destinata ad acuirsi nella seconda metà del secolo.
9) Un tentativo di riforma cattolica: il sinodo diocesano di Antonio de Goppo (1460)
A succedergli dopo il suo trasferimento a Siena fu il triestino Antonio de Goppo (1451-1485): il suo episcopato, che abbraccia più di un trentennio, si colloca in un periodo particolarmente travagliato della seconda metà del Quattrocento, quando Trieste, pesantemente limitata nei traffici commerciali e mutilata nel territorio dal conflitto armato con Venezia, fu sottoposta a un maggior controllo da parte del sovrano d'Austria anche con l'appoggio di esponenti del ceto magnatizio triestino.
In questo clima agitato, si colloca la decisione del vescovo de Goppo per la celebrazione del sinodo diocesano: quadro di riferimento è il concilio Lateranense IV (1215), il cosiddetto “concilio riformatore”, la cui legislazione costituisce, come è noto, la struttura dottrinale e normativa della vita del clero e della sua attività pastorale fino al concilio di Trento. In relazione alla cura d'anime, le costituzioni lateranensi si occupano della salvezza individuale attraverso la partecipazione dei fedeli alla vita sacramentale, stabilendo nella nota costituzione 21 il precetto minimo, tuttora vigente, della confessione annuale e della comunione pasquale. Su questa linea, le 44 costituzioni sinodali del de Goppo manifestano l’esigenza di portare a conoscenza in forma solenne e pubblica le norme cui attenersi e le pene spirituali, pecuniarie o carcerarie cui avrebbero dovuto soggiacere i trasgressori. La Chiesa viene percepita come un'istituzione politico-sociale piuttosto che come Popolo di Dio.
Ignoriamo gli esiti di tali provvedimenti nell'immediato, ma le testimonianze pervenuteci a distanza di tempo non lasciano certo intravedere un'inversione di tendenza nei costumi del clero, che davano ansa alle critiche dei riformatori d'Oltralpe e alle frequenti defezioni dalla Chiesa cattolica.
10) La Chiesa in sofferenza: l’episcopato di Pietro Bonomo (1501-1546)
Un momento della storiografia ecclesiastica che ha prestato l’opportunità per un’indagine più completa del fenomeno religioso anche nella diocesi di Trieste è quello travagliato e discusso della Riforma luterana; è da lì che emergono: il decadimento della Chiesa tergestina per quanto riguarda il concubinato ecclesiastico e la sorprendente connivenza del laicato di fronte a questa aperta violazione canonica; l’ignoranza del clero; gli influssi del protestantesimo, qui più forti che altrove; la religiosità del popolo e la sostanziale integrità dei costumi, nonostante l’esempio dei canonici concubinari in città e dei parroci conviventi sul territorio della diocesi registrati dal card. Valier nel corso della sua visita apostolica; l’assenza di movimenti di riforma dal basso e l’applicazione dei decreti tridentini affidata al vescovo.
A Trieste l’eresia dovette trovare presto seguaci, se nel 1534 il nunzio Pier Paolo Vergerio scriveva da Vienna al segretario di Clemente VII che in Trieste, “che è città della nostra Italia et giace ai lidi del nostro mare Adriatico, pullulava molto bene il Luterismo preso per il commercio della Germania”.
Non sappiamo molto dell’attività pastorale del vescovo Pietro Bonomo (1502-1546), che per più di quarant’anni governò la diocesi dove si era diffuso il movimento riformato grazie al transito commerciale con i paesi d’Oltralpe e ai rapporti con Venezia. In lui “vocazione umanistica e ruolo culturale appaiono determinanti e sopravanzano il ruolo ecclesiastico” (Tavano). La sua posizione nei confronti della Riforma emerge dai suoi rapporti con lo sloveno Primož Trubar (1508-1586), divenuto il massimo esponente del movimento luterano in Carniola: il Trubar fu da lui ordinato sacerdote nel 1530 e tenuto come proprio cappellano fra il 1540 e il 1542, quando la sua adesione al luteranesimo era ormai pubblica. A lui il Bonomo concesse anche di predicare, come pure al frate agostiniano Giulio della Rovere (Giulio da Milano), già processato per eresia e per apostasia: da tutto ciò risulta l’indubbia simpatia del Bonomo per la Riforma in una città dove il movimento riformato aveva trovato adesione fra il patriziato e i ceti dirigenti.
Quella del Bonomo è sicuramente la personalità triestina più rilevante del periodo che precede la proclamazione del porto franco, mentre la ripresa religiosa e l’ortodossia post-tridentina erano affidate ai Gesuiti, qui insediatisi nel 1619 e preoccupati soprattutto di preservare dalla “peste eretica” i fedeli delle regioni infette.
11) La Chiesa in crisi di fronte a una società multietnica e multireligiosa
Nella seconda metà del secolo XVIII, la creazione del porto franco (1719) contribuì a trasformare Trieste in un florido centro emporiale. La politica ecclesiastica dei governi “illuminati” e i profondi rivolgimenti politici del territorio tra Sette e Ottocento recarono gravi alterazioni alle strutture giuridiche della comunità diocesana, che ebbe a subire modifiche dei confini territoriali, soppressioni e ricostituzioni.
La comunità cattolica doveva difendersi dal dilagante malcostume di una società sostanzialmente irreligiosa e aprirsi lentamente alla convivenza e al dialogo ecumenico con i fratelli di altre confessioni cristiane qui immigrati dalle regioni d’Oltralpe e dall’Oriente per le opportunità del commercio e garantiti dall’editto di tolleranza emanato da Giuseppe II nel 1781. Si legge tuttora con interesse storico la vibrante requisitoria del vescovo Inzaghi (1790) contro la politica riformatrice e tollerante di Giuseppe II, sentita come una stroncatura di tradizioni secolari; nella proposta dei rimedi, l’Inzaghi dimostrava l’intransigenza del pastore cattolico di allora e, contro l’ondata dei tempi nuovi, voleva andare a fondo nella reazione: “è necessario – scriveva – rendere obbligatoria l’istruzione religiosa, punire l’apostasia dei cattolici, proibire i matrimoni misti, impedire la promiscuità di scolari cattolici ed ebrei nelle scuole, vietare ai pastori protestanti di invitare i cattolici alle loro prediche”.
12) La Chiesa divisa e il problema nazionale
Nel 1831 cominciò la serie ininterrotta di sette vescovi, sei slavi e uno tedesco, i quali, per un certo verso, incarnarono la testarda politica del governo imperiale di Vienna contro la temuta italianità di Trieste con grave pregiudizio anche della loro autorevolezza morale. Tra questi, emerge l’equilibrata figura di Bartolomeo Legat (1847-1875), che cercò forme di integrazione reciproca fra l’istituzione ecclesiastica e il potere civile sulla base del concordato stipulato dalla monarchia asburgica con la S. Sede nel 1855, grazie al quale dotò di nuove chiese la città allora in espansione.
Negli anni di sconvolgimenti profondi tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, maturarono e agirono nella cultura cittadina e nella comunità ecclesiale personalità di eccezionale rilievo, come mons. Edoardo Marzari. Mons. Marcello Labor e mons. Jakob Ukmar, quando nella cupa atmosfera del nazionalismo fanatico toccò ai vescovi essere ponte tra sacerdoti e fedeli, divisi per nazionalità e per idee politiche. Va riconosciuto al vescovo Antonio Santin, costretto a subire la mutilazione della diocesi, il merito della ricostruzione morale e materiale di comunità e di chiese dopo l’azione devastante della seconda guerra mondiale e della lotta civile, qui scatenatasi più violenta che altrove.
È compito arduo tracciare un profilo storico sintetico di una comunità diocesana bimillenaria: per questo mi vedo costretto a limitare il quadro a pochi passaggi significativi e a personaggi emblematici in grado di illuminare l’itinerario istituzionale di questa Chiesa tergestina che si incarna nella storia della città non sempre con segni profetici e talora subendone inevitabili condizionamenti. Entro le strutture di una Chiesa giuridica sarebbe nostro compito indagare in quali forme concrete si siano realizzate le istanze di un’autentica comunità evangelizzante, ma su questo fronte lo storico si muove a disagio perché la documentazione si fa molto più rara specie nello spazio limitato di un territorio diocesano, mentre gli atteggiamenti spirituali sfuggono in larga misura agli strumenti della verifica critica. D’altronde è stato osservato a proposito della Chiesa feudale che, appunto perché divenne feudale nell’età del feudalesimo, l’organismo ecclesiastico rimase vitale e ravvivò la società contemporanea in campo civile e religioso.
1) Un catecumenato collettivo e arcano e la tradizione martiriale
Chi tenta di scrivere la storia di una Chiesa locale spesso si trova di fronte a documenti che interessano vicende istituzionali legate per lo più a concessioni di privilegi o a conferma di diritti acquisiti, mentre fanno difetto testimonianze sulla spiritualità del clero e del popolo fedele, come pure sulla riflessione critica della pastorale praticata. Quando manchino decreti di assemblee sinodali o eccezionali figure di vescovi e voci di una coscienza riflessa, bisogna attendere l’età contemporanea per trovare spunti al riguardo nelle lettere pastorali dei vescovi. Per età precedenti, siamo generalmente privi di testi sui contenuti della predicazione e della catechesi, come sulla formazione culturale del clero diocesano, tanto che si può avere l’impressione di una pratica pastorale esercitata per periodi di lunga durata secondo schemi fissi e moduli prestabiliti senza formule innovative e slanci di creatività in un tessuto sociale completamente permeato dalla religione cristiana e animato dalle sue liturgie. Così non è se consideriamo le fonti cristiane dei primi secoli, quando il fermento evangelico era ancora una novità ed era al centro dell’attenzione specie in quelle Chiese privilegiate rette da vescovi impegnati non solo sul fronte della missione ma anche su quello della comunicazione e della scrittura. È il caso della Chiesa aquileiese, che, sullo scorcio del IV secolo, ha avuto la fortuna di poter vantare un vescovo come Cromazio, attento alla parola di Dio e a cogliere i momenti più opportuni per presentarla ai suoi fedeli e trasmetterla fino a noi. Ma, a parte le tradizioni incontrollate che collegano la cristianizzazione del nostro territorio all’iniziativa del protovescovo aquileiese Ermacora in età apostolica, resta assodato che nulla o quasi conosciamo, su basi critiche, della comunità ecclesiale di Tergeste in epoca precostantiniana. I nuclei tradizionali che possiamo faticosamente recuperare attraverso fonti posteriori, o almeno posteriormente rielaborate, si riducono per lo più ai nomi di alcuni martiri, stranamente mai di vescovi, salvo che tali non siano stati quelli cui è riferito il ricorrente appellativo di presbiteri. Le vicende di questi santi sono narrate da leggende agiografiche molto recenti, assai simili tra loro e imparentate con le altre leggende dell’Istria: pertanto, a eccezione di Giusto e di Servolo, vi sono ragioni per credere che non si tratti di martiri locali, bensì di culti e di reliquie importati da altre sedi dell’arco adriatico e perfino dal Mediterraneo orientale che hanno ricevuto onore e accresciuto la fede. In conclusione, a parte la Passio di S. Giusto, caratterizzata da una narrazione semplice senza complicati tormenti e strepitosi prodigi, si può dire che, nella maggior parte dei casi, i testi dell’agiografia tergestina siano da considerarsi più come testimonianza delle tradizioni locali all’epoca della loro compilazione che non come fonte per la storia del primo cristianesimo locale. Di Giusto, laico adulto della nascente comunità cristiana, la tradizione agiografica ha trasmesso poche e scarne notizie, avendo inteso offrire piuttosto la rappresentazione “iconica” e drammatica di una vicenda personale e di un tipo proposto come figura emblematica della fede per questa Chiesa locale. Anche la cronotassi episcopale non ci è d’aiuto, se consideriamo che il primo vescovo noto è appena Frugifero, che intorno alla metà del sec. VI, lascia memoria di sé nei restauri e nelle modifiche della basilica episcopale impiantata nel cuore della città romana e innestata al monumentale propileo già nel corso del sec. V, sul sito del presunto Capitolium; Frugifero è contemporaneo o quasi di grandi vescovi costruttori di basiliche nel corso del sec. VI, come Massimiano a Ravenna, Elia a Grado ed Eufrasio a Parenzo.
2) La Chiesa in espansione: riscontri archeologico-monumentali
Ad accrescere i nostri dubbi sull’esistenza di una gerarchia ecclesiastica locale per la seconda metà del sec. IV intervengono gli Atti del concilio antiariano convocato ad Aquileia nel 381, che non tramandano con certezza alcun nome di vescovo triestino o istriano in quella trentina di partecipanti. Inoltre la presenza di monete in bronzo rinvenute intorno alle sepolture nel sepolcreto di via Donota e databili tutte entro il secolo IV ricorda l’uso pagano di fornire al defunto l’obolo per il passaggio all’oltretomba e sembra attestare una resistenza all’espansione cristiana tuttavia in atto. D’altronde il periodo tra il primo annuncio del Vangelo e lo stabilizzarsi di una sede episcopale può essere stato non breve, anche per la difficoltà di formare in poco tempo persone idonee al ministero gerarchico. È un periodo di attività silente e nascosta che prelude alla formazione gerarchica della Chiesa, una specie di catecumenato collettivo e arcano, d’intima fermentazione e di perigliosa espressione. Tuttavia non mancano indizi di un’espansione cristiana anche a Tergeste tra il IV e il V secolo, se il culto di Mitra, di pur lunga e consolidata tradizione nella grotta sulle falde dell’Ermada presso il Timavo, non fu in grado di sostenere il confronto col cristianesimo e se la basilica martiriale di via Madonna del Mare, ultimamente scoperta al di là della cinta urbana e già molto frequentata dagli studiosi, può attestare almeno per la seconda metà del sec. V l’esistenza di una comunità liturgicamente organizzata intorno a un sacro deposito di reliquie destinate al loculo sotto l’altare. Uno degli apporti più felici di questa scoperta di cinquant’anni fa è la serie nutrita delle iscrizioni che si leggono sui due successivi strati della pavimentazione musiva databili fra il V e il VI secolo. Esse sono le uniche voci sicuramente autentiche della prima comunità cristiana di Tergeste e ci tramandano 18 nomi appartenenti a umili fedeli e a personalità talora rilevanti, come due defensores sanctae ecclesiae Tergestinae e due defensores sanctae ecclesiae Aquileiensis (una sorta di avvocati laici della Chiesa), che attestano una somiglianza di organizzazione interna fra le due Chiese, primaziale e suffraganea, vicine nella stessa offerta, e postulano anche per Tergeste gli altri quadri della gerarchia e dell’organizzazione ecclesiastica. Almeno dal sec. X la Chiesa tergestina è in grado di presentare prove documentali sul culto ormai consolidato del suo principale patrono, di cui già prima doveva aver rielaborato per l’uso liturgico il testo della Passio di incerta datazione, anche se con probabili indizi di una redazione anteriore e di una tradizione genuina. Tali testimonianze si riferiscono alle concessioni di re e imperatori alla sancta Tergestina ecclesia quae est constructa in honorem praeclarissimi Iusti martiris. Per i secoli successivi invece le testimonianze si moltiplicano attraverso l’espressione delle arti figurative, a cominciare dalla figura musiva di S. Giusto che, assieme a S. Servolo, affianca il Redentore (sec. XII-XIII) nell’absidiola sud della cattedrale. Fra i numerosi problemi tuttora aperti sulle origini e sul primo articolato sviluppo della Chiesa locale, uno è quello relativo alla cristianizzazione del territorio e alla più antica rete plebanale qui stabilitasi: la prima testimonianza scritta per la conoscenza della topografia ecclesiastica della diocesi tergestina è un elenco di benefici, ai quali nel 1272 era stato intimato il pagamento di una contribuzione a favore del legato pontificio in visita a queste regioni: si possono così riconoscere 12 pievi su un territorio di notevole estensione fra l’altopiano carsico e l’Istria settentrionale.
3) La Chiesa scismatica: lo scisma dei Tre Capitoli
Il nome di un successore di Frugifero e forse anche immediato, Severo, è trasmesso dalle sottoscrizioni dei vescovi intervenuti, il 3 novembre 579, al sinodo scismatico di Grado, dove il metropolita di Aquileia Elia (571-587) ribadì, assieme ai suoi suffraganei, la fede inconcussa nel concilio di Calcedonia (451) ma anche la resistenza alla linea dottrinale di Roma sulla condanna dei Tre Capitoli voluta da Giustiniano e ratificata da papa Vigilio: era una di quelle eclissi parziali al criterio del primato romano registrate talora dalla storia fra i membri della cristianità e persino nella coscienza di alcuni vescovi. Rientrata in comunione con Roma per opera di Firmino nel 602, la Chiesa tergestina diede due eminenti figure di patriarchi: Giovanni (766 ca-803) e il nipote Fortunato (803-826), entrambi fautori dei carolingi e del loro regno italico, dopo la sconfitta della dinastia longobarda (774).
4) La Chiesa potente: il potere temporale del vescovo
La crescente impotenza del potere centrale a fronteggiare le nuove, incessanti minacce di Ungari, Slavi e Saraceni, obbligò la città a provvedere da sola alla propria difesa, avendo come unico punto di riferimento il vescovo e la Chiesa locale, che si erano assunti il compito di organizzare la difesa, di coordinare l’assistenza e di intraprendere l’opera di ricostruzione. Le concessioni sovrane ai vescovi triestini si collocano appunto nel periodo delle rovinose invasioni ungare dopo l’894: è datato all’8 agosto 948 il diploma con cui Lotario II compensò i meriti acquisiti dalla Chiesa locale durante quelle calamità con nuovo amplissimo privilegio di diritti immunitari per l’esercizio delle pubbliche funzioni in sostituzione del re: allora furono infatti cedute al vescovo Giovanni e ai suoi successori tutti i diritti che il regno d’Italia aveva su Trieste e fu esclusa la dipendenza della città da ogni giurisdizione superiore che non fosse quella del vescovo, fatto unico signore delle mura e delle porte e designato così alla difesa dei cittadini. Secondo un giudizio di Attilio Tamaro, esponente accreditato della storiografia ufficiale giuliana dopo l’annessione di Trieste all’Italia, attorno al vescovo, ancora eletto dal clero e dal popolo, si sarebbe costituito, in certo modo, quasi una prima fase della vita comunale, mentre gli interessi della classe dominante e della città si accordavano con quelli del clero e del vescovo. Questa è la condizione istituzionale della Chiesa tergestina mantenutasi con alterne vicende fino alla fine del Duecento, quale risulta dai pochi documenti, pervenutici talora anche attraverso una tradizione manoscritta assai discussa. Successivamente i vescovi di Trieste scelsero di gravitare nell’orbita della politica ghibellina dello stato patriarcale di Aquileia per evitare la concorrenza e l’assorbimento da parte della minacciosa e incombente potenza veneziana ed esercitarono le loro prerogative giurisdizionali e signorili, come il diritto di zecca, ma non si chiamarono conti che molto più tardi, quando avvertirono la fine imminente di ogni effettivo dominio di fronte al sorgente Comune.
5) La Chiesa umiliata: i primordi dell’istituto comunale e la fine del potere temporale del vescovo
Trieste fu l’unica delle città istriane in cui il sorgente Comune dovette contendere al vescovo la legittima signoria avuta, come si è detto, per concessione sovrana. I vescovi triestini, d’altra parte, erano stati costretti a incontrare forti debiti per sostenere la causa dell’imperatore e del patriarca contro i Comuni, per difendersi dal duca di Carinzia e dai briganti della Carsia, per pagare le contribuzioni alla curia pontificia e per la partecipazione al concilio di Lione (1245). Il vescovo Volrico de Portis non fu in grado di opporsi alla vigorosa tendenza autonomistica della classe dirigente del Comune triestino e il 25 maggio 1253, per fronteggiare la drammatica situazione finanziaria del proprio episcopato (cum ecclesia Tergestina foret magnis debitis et variis aggravata propter magnas expensas et sumptus…), col consenso del Capitolo cattedrale, cedette per 800 marche ai consoli del Comune una serie di diritti temporali sulla città. Il de Vergottini non riteneva esagerato affermare che la cessione vescovile del 1253 è la vera magna carta del Comune autonomo di Trieste, mentre il Tamaro ossevava che con tali atti “il vescovo aveva cessato di essere il rappresentante dell’Impero ed era divenuto il semplice pastore di una città indipendente”.
6) L'insediamento francescano
In questo periodo di travaglio ai primordi dell’istituto comunale e di incertezza nell’organizzazione della Chiesa, si insediarono anche a Trieste, come a Capodistria, a Pola, a Parenzo e a Pirano, i Minori francescani, ma non sappiamo se la loro presenza si sia qui radicata quasi spontaneamente, sulla scia dell’entusiasmo religioso sollevato dalla parola di un predicatore eccezionale e carismatico, quale fu S. Antonio di Padova, come vuole una tradizione incontrollata, o se furono le ardenti fazioni cittadine a indirizzare qui i frati come mediatori di pace.
7) La Chiesa funzionale all’Impero: la “dedizione” di Trieste all'Austria e le provvisioni di Chiesa
La discussa “dedizione” di Trieste e di quasi tutta la diocesi ai domini della Casa d'Austria, stipulata a Graz il 30 settembre 1382, segna certo uno dei momenti culminanti della storia triestina non senza ricadute sulla vita della Chiesa locale: da allora infatti fino al 1918 i vescovi triestini furono scelti tra i prelati accetti alla Casa d'Austria e col beneplacito degli Asburgo, con preferenza a personalità impegnate nel servizio all'Impero. Inoltre fino al concilio di Costanza (1414-1418), nei primi decenni del sec. XV, le provvisioni di Chiesa furono turbate dal Grande Scisma d'Occidente (1378-1417), triste retaggio della cosiddetta “cattività avignonese” del papato, che, com'è noto, aveva diviso la cristianità in due obbedienze, una romana e una avignonese.
8) Vescovi contrastati
L'ambiente non era facile sia per l'ininterrotta decadenza commerciale di cui Trieste soffrì nel corso del Quattrocento, sia per le competizioni e i contrasti fra il Capitolo, che da secoli vantava il suo diritto nella designazione dei vescovi; il pontefice, che ormai avocava a sé la nomina; il Comune, che pretendeva il diritto di presentazione e quello di amministrare i beni della mensa vescovile nelle vacanze di sede; e il duca d'Austria, che, come signore territoriale, pretendeva per sé la nomina, secondo quanto ebbe a ribadire al Capitolo il duca Ernesto nel 1406. Perciò i vescovi designati da Roma, spesso ricusati dal Capitolo che voleva conservare il diritto di nomina, talora furono costretti a rifugiarsi a Muggia. Solo l'episcopato triestino del senese Enea Silvio Piccolomini (1447-1450), concordato nel 1446 tra papa Eugenio IV e l’imperatore Federico III, si presenta come una parentesi relativamente tranquilla in una situazione politica e sociale problematica, destinata ad acuirsi nella seconda metà del secolo.
9) Un tentativo di riforma cattolica: il sinodo diocesano di Antonio de Goppo (1460)
A succedergli dopo il suo trasferimento a Siena fu il triestino Antonio de Goppo (1451-1485): il suo episcopato, che abbraccia più di un trentennio, si colloca in un periodo particolarmente travagliato della seconda metà del Quattrocento, quando Trieste, pesantemente limitata nei traffici commerciali e mutilata nel territorio dal conflitto armato con Venezia, fu sottoposta a un maggior controllo da parte del sovrano d'Austria anche con l'appoggio di esponenti del ceto magnatizio triestino. In questo clima agitato, si colloca la decisione del vescovo de Goppo per la celebrazione del sinodo diocesano: quadro di riferimento è il concilio Lateranense IV (1215), il cosiddetto “concilio riformatore”, la cui legislazione costituisce, come è noto, la struttura dottrinale e normativa della vita del clero e della sua attività pastorale fino al concilio di Trento. In relazione alla cura d'anime, le costituzioni lateranensi si occupano della salvezza individuale attraverso la partecipazione dei fedeli alla vita sacramentale, stabilendo nella nota costituzione 21 il precetto minimo, tuttora vigente, della confessione annuale e della comunione pasquale. Su questa linea, le 44 costituzioni sinodali del de Goppo manifestano l’esigenza di portare a conoscenza in forma solenne e pubblica le norme cui attenersi e le pene spirituali, pecuniarie o carcerarie cui avrebbero dovuto soggiacere i trasgressori. La Chiesa viene percepita come un'istituzione politico-sociale piuttosto che come Popolo di Dio. Ignoriamo gli esiti di tali provvedimenti nell'immediato, ma le testimonianze pervenuteci a distanza di tempo non lasciano certo intravedere un'inversione di tendenza nei costumi del clero, che davano ansa alle critiche dei riformatori d'Oltralpe e alle frequenti defezioni dalla Chiesa cattolica.
10) La Chiesa in sofferenza: l’episcopato di Pietro Bonomo (1501-1546)
Un momento della storiografia ecclesiastica che ha prestato l’opportunità per un’indagine più completa del fenomeno religioso anche nella diocesi di Trieste è quello travagliato e discusso della Riforma luterana; è da lì che emergono: il decadimento della Chiesa tergestina per quanto riguarda il concubinato ecclesiastico e la sorprendente connivenza del laicato di fronte a questa aperta violazione canonica; l’ignoranza del clero; gli influssi del protestantesimo, qui più forti che altrove; la religiosità del popolo e la sostanziale integrità dei costumi, nonostante l’esempio dei canonici concubinari in città e dei parroci conviventi sul territorio della diocesi registrati dal card. Valier nel corso della sua visita apostolica; l’assenza di movimenti di riforma dal basso e l’applicazione dei decreti tridentini affidata al vescovo. A Trieste l’eresia dovette trovare presto seguaci, se nel 1534 il nunzio Pier Paolo Vergerio scriveva da Vienna al segretario di Clemente VII che in Trieste, “che è città della nostra Italia et giace ai lidi del nostro mare Adriatico, pullulava molto bene il Luterismo preso per il commercio della Germania”. Non sappiamo molto dell’attività pastorale del vescovo Pietro Bonomo (1502-1546), che per più di quarant’anni governò la diocesi dove si era diffuso il movimento riformato grazie al transito commerciale con i paesi d’Oltralpe e ai rapporti con Venezia. In lui “vocazione umanistica e ruolo culturale appaiono determinanti e sopravanzano il ruolo ecclesiastico” (Tavano). La sua posizione nei confronti della Riforma emerge dai suoi rapporti con lo sloveno Primož Trubar (1508-1586), divenuto il massimo esponente del movimento luterano in Carniola: il Trubar fu da lui ordinato sacerdote nel 1530 e tenuto come proprio cappellano fra il 1540 e il 1542, quando la sua adesione al luteranesimo era ormai pubblica. A lui il Bonomo concesse anche di predicare, come pure al frate agostiniano Giulio della Rovere (Giulio da Milano), già processato per eresia e per apostasia: da tutto ciò risulta l’indubbia simpatia del Bonomo per la Riforma in una città dove il movimento riformato aveva trovato adesione fra il patriziato e i ceti dirigenti. Quella del Bonomo è sicuramente la personalità triestina più rilevante del periodo che precede la proclamazione del porto franco, mentre la ripresa religiosa e l’ortodossia post-tridentina erano affidate ai Gesuiti, qui insediatisi nel 1619 e preoccupati soprattutto di preservare dalla “peste eretica” i fedeli delle regioni infette.
11) La Chiesa in crisi di fronte a una società multietnica e multireligiosa
Nella seconda metà del secolo XVIII, la creazione del porto franco (1719) contribuì a trasformare Trieste in un florido centro emporiale. La politica ecclesiastica dei governi “illuminati” e i profondi rivolgimenti politici del territorio tra Sette e Ottocento recarono gravi alterazioni alle strutture giuridiche della comunità diocesana, che ebbe a subire modifiche dei confini territoriali, soppressioni e ricostituzioni. La comunità cattolica doveva difendersi dal dilagante malcostume di una società sostanzialmente irreligiosa e aprirsi lentamente alla convivenza e al dialogo ecumenico con i fratelli di altre confessioni cristiane qui immigrati dalle regioni d’Oltralpe e dall’Oriente per le opportunità del commercio e garantiti dall’editto di tolleranza emanato da Giuseppe II nel 1781. Si legge tuttora con interesse storico la vibrante requisitoria del vescovo Inzaghi (1790) contro la politica riformatrice e tollerante di Giuseppe II, sentita come una stroncatura di tradizioni secolari; nella proposta dei rimedi, l’Inzaghi dimostrava l’intransigenza del pastore cattolico di allora e, contro l’ondata dei tempi nuovi, voleva andare a fondo nella reazione: “è necessario – scriveva – rendere obbligatoria l’istruzione religiosa, punire l’apostasia dei cattolici, proibire i matrimoni misti, impedire la promiscuità di scolari cattolici ed ebrei nelle scuole, vietare ai pastori protestanti di invitare i cattolici alle loro prediche”.
12) La Chiesa divisa e il problema nazionale
Nel 1831 cominciò la serie ininterrotta di sette vescovi, sei slavi e uno tedesco, i quali, per un certo verso, incarnarono la testarda politica del governo imperiale di Vienna contro la temuta italianità di Trieste con grave pregiudizio anche della loro autorevolezza morale. Tra questi, emerge l’equilibrata figura di Bartolomeo Legat (1847-1875), che cercò forme di integrazione reciproca fra l’istituzione ecclesiastica e il potere civile sulla base del concordato stipulato dalla monarchia asburgica con la S. Sede nel 1855, grazie al quale dotò di nuove chiese la città allora in espansione. Negli anni di sconvolgimenti profondi tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, maturarono e agirono nella cultura cittadina e nella comunità ecclesiale personalità di eccezionale rilievo, come mons. Edoardo Marzari. Mons. Marcello Labor e mons. Jakob Ukmar, quando nella cupa atmosfera del nazionalismo fanatico toccò ai vescovi essere ponte tra sacerdoti e fedeli, divisi per nazionalità e per idee politiche. Va riconosciuto al vescovo Antonio Santin, costretto a subire la mutilazione della diocesi, il merito della ricostruzione morale e materiale di comunità e di chiese dopo l’azione devastante della seconda guerra mondiale e della lotta civile, qui scatenatasi più violenta che altrove.